EDITORIALE DELLA FONDAZIONE
Nel 1485, esattamente il 16 aprile, durante il pontificato di Papa Innocenzo VIII, a Roma, mentre erano
in atto dei lavori sulla via Appia, circa 8 chilometri fuori Porta Appia delle Mura Aureliane, fu trovata
un’antica tomba romana intatta, risalente ai tempi di Cesare e Cicerone, cioè al I secolo a.C., a circa
3,5 metri di profondità.
Dentro ad un semplice sarcofago ci stava il corpo intatto di una ragazza romana dell’apparente età di
20 anni, immerso in un liquido bluastro profumato (forse il natron, il carbonato decaidrato di sodio che
gli egiziani usavano per imbalsamare i corpi dei defunti, ipotesi fatta anche se in quel periodo storico
una simile procedura a Roma non veniva fatta).
Fu una vera sorpresa, tanto che gli studiosi dell’epoca rimasero esterrefatti: nonostante fossero
passati circa 1500 anni, la donna era del tutto integra nel liquido e così perfetta da sembrare immersa
nel sonno.
Vi sono varie testimonianze scritte dell’epoca di questo eccezionale ritrovamento: personaggi presenti
agli scavi, come Antonio di Vaseli e messer Daniele da San Sebastiano, una carta proveniente dal
Codice 716 della Biblioteca di Monaco (la stessa Biblioteca in cui tra i manoscritti più famosi ci sono i
Carmina Burana) e l’umanista Bartolomeo della Fonte: scritti in cui, seppur in maniera diversa, sono
riportati gli stessi particolari.
Si dice che durante gli scavi sulla Via Appia per cercare pietre e marmi, furono scoperte tre tombe di
marmo: una era di Terenzia Tulliola, figlia di Cicerone (ma sembra che questa identificazione non sia
vera, in quanto Cicerone non possedette mai una tomba di famiglia al V miglio della Via Appia), le altre
due non portavano nessuna indicazione.
In una delle due trovarono la giovane donna: il corpo era disposto bocconi, coperto di una sostanza
alta due dita, grassa e profumata.
Da un sunto degli scritti, “rimossa la crosta odorosa, apparve un volto di un pallore così limpido da far
sembrare che la fanciulla fosse stata sepolta quel giorno: era bellissima, con i lunghi capelli che
aderivano ancora al cranio e che sembravano essere stati appena pettinati, spartiti e annodati come si
conveniva ad una giovane e raccolti in una reticella di seta e oro”.
“Gli occhi erano aperti e le palpebre, sotto cui si scorgeva ancora la cornea, potevano essere richiuse
e sollevate con la mano”.
“Le orecchie erano minuscole e le narici ancora intatte e così morbide da vibrare al semplice contatto
di un dito; le labbra rosse, socchiuse, mostravano denti piccoli e bianchi, la lingua scarlatta era vicino
al palato e le guance, il mento, la nuca e il collo sembravano palpitare”.
“Le braccia scendevano intatte dalle spalle sì che, volendo, si sarebbero potuto muoverle, così come
le mani, le gambe e i piedi, tutte con ancora una propria elasticità”.
“Le unghie aderivano ancora alle splendide lunghe dita delle mani distese, petto, ventre e grembo
erano invece compressi da un lato e dopo l’asportazione della crosta aromatica si decomposero;
dorso, fianchi e il deretano avevano conservato i loro contorni e le forme meravigliose, così come le
cosce e le gambe che in vita avevano sicuramente presentato pregi anche maggiori del viso”.
Oltre alla reticella di seta e oro, unico gioiello indossato dalla ragazza che purtroppo venne rubato al
momento della scoperta era un anello al dito indice della mano sinistra.
Il corpo fu portato in Campidoglio ed esposto al Palazzo dei Conservatori, ma dopo due giorni il corpo,
perfetto all’inizio, a contatto con l’aria, imputridì: Papa Innocenzo VIII decise di farla seppellire in un
luogo segreto.
Ci fu chi disse che fu seppellita intorno al Muro Torto, luogo, come già è stato scritto, in cui venivano
solitamente sepolti tutti quelli che morivano senza pentirsi dei propri peccati, altra versione, la più
vergognosa, è quella che dice che il corpo fu gettato nel Tevere.
Chi poteva essere questa misteriosa ragazza in un sarcofago senza iscrizione?
Una povera ragazza non si sarebbe potuta permettere una tale sepoltura: si pensò a Priscilla, la cui
tomba sulla Via Appia è descritta dal poeta Stazio, ma il punto della scoperta non coincide con quello
della tomba.
Da allora non se ne è saputo più nulla.
Ma c’è un’altra leggenda nella leggenda: si dice che, quando fu aperta la tomba della ragazza, ai suoi
piedi ci fosse una lampada accesa che si spense al contatto con l’aria, motivo per cui ci fu una folla
enorme (si narra di oltre 20.000 persone) che andò a visitare il corpo della ragazza, spinta dalla
convinzione di un fatto miracoloso ed anche dalla superstizione legata al timore per la rinascita di
qualche credo nel fuoco inestinguibile della Dea Vesta.
Le Vestali, ovvero le sue sacerdotesse, anche nel tardo Impero, erano venerate dai pagani e rispettate
dai cristiani, nonostante la propaganda antipagana che cercò in tutti i modi di demolirne la valenza,
come accadde per tutti i siti pagani, di culto e non.
Ecco perché la decisione di Papa Innocenzo VIII: aveva paura che crescesse la superstizione del
Fuoco Sacro (detto anche Fuoco Santo o Fuoco Greco) su cui generazioni di studiosi, compreso
Leonardo, si sono inutilmente adoperati sino ai nostri giorni per ricostruirne la formula.
Papa Innocenzo VIII fu uno dei pontefici che maggiormente caldeggiarono la lotta contro il supposto
demoniaco ed in particolare la Caccia alle Streghe, tanto da pubblicare il 5 dicembre 1484 la Bolla
“Summis desiderantes affectibus” (Desiderando con supremo ardore), in cui affermava la necessità di
sopprimere l’eresia e la stregoneria nella regione della Valle del Reno.
Anche nei confronti dell’alchimia il Papa aveva un atteggiamento avverso: il fatto stesso di non essere
riusciti a capire con quale sostanza fosse stato ricoperto il corpo della giovane rimasto in uno stato
perfetto, faceva sì che non solo Papa Innocenzo VIII ma anche Giovanni XXII, Pontefice dal 1316 al
1334, avessero un atteggiamento di condanna verso tutto ciò che rimandava a pratiche empiriche e a
ritorni di paganesimo.
Tornando alla lampada rimasta accesa per 1500 anni: come aveva potuto illuminare la stanza per
tutto questo tempo?
Da che cosa era stata alimentata?
Leggende parlano di lampade eterne che hanno brillato per secoli senza spegnersi e l’unica (piuttosto
stramba) spiegazione fino ad oggi trovata è che funzionassero con pile nucleari, che durano 5000 anni
e diffondono una particolare luce bianco-azzurra.
Secondo questa tesi, quindi, gli antichi conoscevano la radioattività?
Ma oltre a questa Mummia di cui abbiamo solo traccia attraverso scritti, esiste anche la Mummia di
Grottarossa, Mummia sempre romana di una bambina di otto anni, risalente tra il 150 e il 200 d.C.
È conservata in una sala del piano interrato del Museo Nazionale Romano di Palazzo Massimo, in una
teca a temperatura e umidità controllate, illuminata con luce attenuata e filtrata dalle radiazioni
dannose per garantirne la conservazione.
La Mummia è conosciuta con il nome di “Mummia di Grottarossa” perché fu ritrovata, il 5 febbraio
1964, in un cantiere in prossimità di Grottarossa, a nord di Roma, al chilometro 13,600 circa della Via
Cassia, in quella che successivamente verrà chiamata “Via dei Martiri de La Storta”.
Il sarcofago, per timore di dover bloccare il cantiere, fu portato via e gettato in una discarica assieme
ad elementi del suo corredo funerario, anch’esso esposto nel museo.
Fu un operaio a vedere il corpo della bambina riemergere dalle macerie e pensando si trattasse del
corpo di un omicidio appena avvenuto chiamò i carabinieri.
A quel punto, fu possibile recuperare sia il corpo, mummificato e perfettamente conservato, sia il
sarcofago in marmo di Carrara che lo conteneva, insieme ad alcuni oggetti che costituivano il ricco
corredo funebre della defunta: una collana d’oro e zaffiri di pregevole fattura, orecchini di filo d’oro,
un anello d’oro con incisa una Vittoria Alata, con un filo che lo avvolgeva per ridurne il diametro,
alcuni vasetti d’ambra rossa, piccoli amuleti ed un minuto busto femminile, sempre di ambra.
A fianco della bambina fu trovata anche una magnifica bambolina in avorio, con braccia e gambe
snodate.
La TAC e le varie analisi non invasive effettuate sulla Mummia e sui denti hanno permesso di
ricostruire che la bambina, al momento della morte, aveva un’età di circa 7-8 anni, e che il decesso
avvenne a causa di una fibrosi pleurica bilaterale.
Nonostante la giovanissima età, l’organismo della fanciulla era già provato: una diffusa osteoporosi
era la conseguenza di una malnutrizione la cui origine, potendo escludere la povertà, va sicuramente
vista in un’alta incidenza di malattie infettive a suo carico.
Lo studio del DNA ci permette poi di sapere che, almeno per ascendenza materna, la Mummia di
Grottarossa aveva origini italiche, probabilmente dell’Italia settentrionale o centrale.
La bambina, come è ben evidente dal corredo e dai vestiti di seta cinese con lamine d’oro, proveniva
da una ricca famiglia e fu imbalsamata a Roma, secondo regole diverse da quelle in uso in Egitto, ma
altrettanto efficaci.
Il corpo e le bende di lino che lo avvolgevano furono impregnati con una resina di conifere colata a
caldo, senza che venissero precedentemente asportati il cervello e gli organi interni.
Possiamo così immaginare che i genitori della bambina si fossero convertiti ad un culto egizio, forse
quello della Dea Iside, che nel I e II secolo si era diffuso in tutto l’Impero Romano, e che per questo
motivo scelsero di farla imbalsamare.
Qualche parola, infine, va dedicata al prezioso sarcofago in marmo bianco, con mascheroni angolari,
che conteneva il corpo: esso è decorato con scene di caccia al cervo, alcune delle quali ispirate
all’episodio di Enea e Didone, descritto nel IV Libro dell’Eneide.
La scena illustrata sul coperchio appare particolarmente significativa e toccante: un cucciolo di leone
viene catturato e sottratto ai genitori per essere portato su una barca, chiaro riferimento al dolore
della separazione che anche i genitori della Mummia di Grottarossa dovettero provare al momento
della prematura morte della figlioletta.
Infine, una delle più sensazionali scoperte archeologiche di questi ultimi 20 anni, che non si capisce
perché ha avuto ampia eco all’estero (Discovery Channel ha dedicato un intero documentario alla
scoperta) e quasi nessuna risonanza in Italia: riguarda un ologramma di 2000 anni fa racchiuso in un
gioiello d’oro, il fantasma di un giovane aristocratico, morto in circostanze misteriose, che si
intravede, evanescente, nella trasparente oscurità di una lente di cristallo di rocca.
Si tratta dell’anello di Carvilio, ritrovato al dito di sua madre, la nobile Aebutia Quarta, uno fra i più
preziosi gioielli romani giunti fino a noi che costituisce un esemplare unico di inestimabile valore.
Nel 2000, nei pressi di Grottaferrata, alla periferia sud-est di Roma, sulla via Latina, si stavano facendo
dei lavori per la rimozione di un traliccio nel terreno di un privato.
Durante gli scavi si videro alcuni gradini perdersi nella profondità del terreno fino ad arrivare davanti ad
una porta di pietra ancora sigillata: gli archeologi della Soprintendenza poterono attestare trattarsi di
una tomba romana del I sec. d.C., ancora perfettamente intatta.
Ci vollero due giorni per aprirla e in un sacello di 9 metri quadrati furono ritrovati due sarcofagi
marmorei: su uno si lesse l’iscrizione “Carvilio Gemello”, sull’altro “Aebutia Quarta”.
Su questo sarcofago il coperchio era crepato, forse proprio dall’epoca dei funerali, come sembra dai
tentativi fatti per ripararlo.
Quando i sarcofagi furono scoperchiati, gli archeologi, sorpresi, videro che contenevano ancora i corpi
intatti, grazie all’imbalsamazione a cui furono sottoposti ed anche, sicuramente, grazie alle particolari
condizioni microclimatiche della tomba: all’estero, quando si parla de “The Mummy of Rome” ci si
riferisce a quella di Carvilio.
L’imbalsamazione differisce dalla mummificazione perché il corpo viene solamente spalmato con
balsami conservanti (a base di mirra e colofonia, in questo caso) ma non viene privato degli organi
interni.
Il sarcofago di Carvilio era dotato di ingegnosi accorgimenti che servivano per assorbire e far defluire i
liquidi corporei: il fondo del sarcofago era cosparso di sabbia, un foro d’uscita coperto da un tampone
di tessuto consentiva di areare il corpo senza che i microorganismi e le spore presenti nell’aria esterna
vi potessero penetrare, contaminandolo: questo dimostra che i romani conoscevano il mondo
microscopico.
Aebutia era una ricca matrona romana e aveva avuto due figli da mariti diversi: Carvilio, figlio del primo
marito, Tito Carvilio, della famiglia Sergia, e Antestia Balbina, figlia del secondo marito, che provvide
alla sepoltura della nobildonna.
Come riportato da Discovery Channel, a causa della rottura del coperchio del sarcofago, di Aebutia
rimane solo lo scheletro, ma si sono conservati i fiori delle ghirlande che addobbavano la salma
(lilium, rose e viole), la veste di seta e la preziosa parrucca rossa, realizzata con capelli umani, fibre
vegetali e crini animali.
La chioma posticcia è intessuta insieme ad una reticella d’oro di straordinaria fattura nella quale
sottilissime lamine d’oro furono attorcigliate intorno a dei fili di seta.
La presenza di tracce di latte di capra sulla parrucca e la mancanza della consueta moneta posta
nella bocca del defunto (come nell’uso romano) fanno ritenere che anche Carvilio e sua madre
fossero seguaci del culto egiziano della Dea Iside.
Dallo stesso sito, non a caso, proviene una statua in granodiorite (una sorta di basalto) del faraone
Sethi I, padre di Ramesse II.
Ritornando all’anello a fascia trovato al dito di Aebutia, si parla di un pezzo assolutamente unico e
originale: sotto l’incavo in cui viene messa la gemma, in raro cristallo di rocca, lavorato “a cabochon”,
è collocato un mini-busto di Carvilio, che morì prematuramente all’età di 18 anni e tre mesi.
Si tratta di una microfusione a cera persa e rappresenta un giovane a torso nudo, con capelli ricci,
labbra sottili e naso aquilino.
L’effetto luminoso della lente di cristallo dona una misteriosa profondità all’immagine del defunto
evocando la lontananza-vicinanza della sua anima agli affetti della madre.
Eppure, il ritratto doveva essere stato alquanto idealizzato.
Dalle ricostruzioni antropometriche eseguite sul cranio, Carvilio non possedeva esattamente i canoni
di una bellezza classica: aveva un viso molto allungato, arcate dentali strette e occhi vicini,
caratteristiche tali da far sospettare, secondo un antropologo, una sindrome di origine genetica.
Il suo femore è stato trovato fratturato in due punti ed ancora poco chiare sono le circostanze della
sua morte: una setticemia in seguito ad un trauma oppure una caduta da cavallo oppure, per via
dell’alta percentuale di arsenico riscontrata nei capelli, il giovane potrebbe essere stato avvelenato.
Aebutia soffrì molto per la perdita dell’unico figlio maschio: volle che il suo sarcofago fosse stupendo,
rifinito con cura persino nelle eleganti iscrizioni.
Paragonata ad oggi, una simile bara avrebbe un costo intorno ai 20.000 euro!
L’anello-reliquiario fu una commissione economicamente molto onerosa e forse anche per questo
non veniva indossato abitualmente da Aebutia, tanto che non sono stati rilevati segni di usura sulla
sua superficie.
La madre morì alcuni anni dopo all’età di 40-45 anni e sembra nella stessa stagione del figlio, come
dimostra l’analisi dei pollini provenienti dalle ghirlande funebri.
Ma ci sono altri dettagli “svelati” dallo scheletro, come, per esempio, l’usura del calcagno che indica
che la donna fosse piuttosto corpulenta, oppure che indossasse abitualmente i coturni, degli zoccoli
molto alti, dotati di zeppa, scomodi da portare e dannosi per il piede.
Infine, nel sarcofago di Aebutia sono state rinvenute anche alcune piccole ossa infantili, ipotizzando
(tesi però ancora non confermata) che la matrona fosse incinta al momento del decesso.
Questi reperti (anello, mummie e sarcofagi), chiamati dell’“Ipogeo delle Ghirlande”, non sono visibili
tutti insieme, anche se sono stati spesi fondi importanti per realizzare delle “teche intelligenti” per i
due corpi (che monitorano umidità, temperatura, luce ecc.): l’anello di Carvilio è esposto a Palestrina,
le mummie si trovano al Laboratorio di Antropologia a Tivoli e i sarcofagi sono conservati nel Museo
dell’abbazia di San Nilo, a Grottaferrata.
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